Introduzione
“Ma nel suo studio ha il lettino?”
“Ma.. possiamo fare anche online?”
“Quanto dura un percorso di supporto psicologico? Posso ripassare tra un’oretta? 45 minuti?”
Queste sono solo alcune delle domande che mi vengono poste tendenzialmente nel corso di un primo contatto telefonico oppure quando racconto e descrivo cosa faccio e di che cosa mi occupo. Sono delle domande che mettono al centro due dimensioni fondamentali del lavoro dello psicologo e più in generale dei professionisti e degli operatori sanitari e della salute, ossia il setting e la dimensione del tempo. Proprio per l’importanza che hanno anche nel definire, tratteggiare i confini del mio approccio, del mio modo di lavorare, entrerò nel merito di queste tematiche. Inizio con un breve articolo sul “setting”!
Setting: definizione
Il termine setting deriva dal verbo inglese “to set” che significa collocare, stabilire, predisporre. Costituisce inoltre un sostantivo di per sé col significato di “cornice”, richiamando, in questo senso, l’azione di configurare un luogo circoscritto, uno spazio e un tempo da utilizzare per definire un obiettivo da raggiungere.
In termini generali, in psicologia clinica, il setting può essere definito come l’insieme delle condizioni che delimitano, ospitano e sostengono l’intervento (Cordella, Grasso, Pennella, 2004).
Più nello specifico, quando si parla di setting, si fa riferimento a:
- la cornice spazio-temporale che organizza il rapporto professionale fra psicologo e utente: il “dove”, il luogo in cui si svolge l’incontro, i tempi, la privacy, l’onorario;
- il particolare tipo di assetto che può assumere il colloquio: individuale, di coppia, familiare o di gruppo.
Setting: contesto pubblico e privato
L’organizzazione e la strutturazione del setting dell’intervento, inoltre, dipendono strettamente dal tipo di contesto in cui lo psicologo esercita la sua professione. Se ad esempio il contesto è pubblico, lo psicologo sarà inserito all’interno di una cornice istituzionale caratterizzata da processi organizzativi consolidati, coerentemente con il mandato istituzionale e l’obiettivo del servizio. Dunque, l’incontro tra psicologo e utente, in questo caso, si colloca entro un sistema più ampio caratterizzato da regole e metodologie di intervento ben definite.
Diverso è quando il contesto è privato, ossia quando lo psicologo svolge consulenze e colloqui in regime di libera professione e, generalmente, ha un suo studio dove incontra gli utenti.
Da considerare che l’emergenza sanitaria ha reso necessario l’uso della modalità telematica per garantire attività clinica e assistenziale in ambito sanitario e della salute. Ad oggi, questa modalità, si configura come una possibilità che l’utente può scegliere e che consente di avviare e/o dare continuità a percorsi di supporto psicologico laddove venisse a mancare la possibilità di incontrarsi di persona. In questo caso, sia per il contesto pubblico sia per quello privato, il “dove” del setting è rappresentato dalla connessione tra due ambienti: quello dello psicologo e quello dell’utente.
Setting: diversi approcci
Fatte salve le invarianti che scandiscono e regolano il rapporto fra psicologo e utente, rese esplicite nel Codice Deontologico degli Psicologi Italiani (nello specifico dagli articoli che riguardano il Capo II: rapporto con l’utenza) e che contribuiscono a formalizzare la cornice del setting in ambito psicologico, il modo in cui il setting si configura, ossia prende forma, viene concepito, organizzato e utilizzato nell’intervento psicologico clinico, è strettamente intrecciato all’approccio teorico-metodologico che il clinico usa nel suo lavoro.
Ad esempio, un elemento cardine del setting psicoanalitico è “il lettino”. Secondo questo approccio il lettino si configura come uno strumento che consente di creare le condizioni ottimali per formulare “libere associazioni” e/o per favorire la “regressione”, intesa come un fenomeno psichico grazie al quale l’individuo ritornerebbe a stati evolutivi precedenti dello sviluppo, a contatto col mondo dei ricordi, dei sogni e della fantasia.
Come descrivere il setting considerando il mio approccio?
Ho pensato di usare uno slogan; uno slogan in grado di rappresentare al meglio come nella mia professione concepisco e configuro il setting e più nello specifico la “cornice spazio temporale” dell’intervento.
#SettingSenzaMuri
I muri rappresentano gli stereotipi, i pregiudizi, quelle teorie, talvolta dogmi, che ostacolano, incatenano i discorsi e le possibilità di gestire la sofferenza e il disagio di una persona. Ne sono un esempio affermazioni del tipo “nella stanza dello psicologo non ci devono essere oggetti personali”; “bisogna sempre dare del lei all’utente”; “il colloquio dura massimo un’ora”; “l’ambiente deve essere… la luce deve essere…”. Gli assolutismi, la staticità, l’impossibilità che possa essere altrimenti. Ma… sulla base di cosa tutti questi “deve” essere così?
Dunque, i muri, rappresentano anche i muri del “dove” e del “luogo” in cui lo psicologo e l’utente si incontrano. In questo senso, considerano il mio approccio, le mura di una stanza non rappresentano quella condizione senza la quale il colloquio non si svolge!
Il setting, considerando il mio approccio, si genera nell’interazione con l’utente ed è flessibile a tal punto da potersi “modellare” ed andare incontro alle esigenze di chi chiede aiuto o avanza delle richieste. Non viene calato dall’alto e non è sempre il medesimo per tutte le persone che (personalmente) incontro! Pertanto, il mio approccio promuove una visione del setting che incarna e si fonda sulla flessibilità. Non è statico e può essere trasformato. Esso può variare ed essere costruito nel “qui ed ora”.
Ci sono sofferenze che non possono attendere una settimana “perché lo studio è occupato da una collega” o perché “questa settimana stanno portando a termine i lavori”; d’altra parte ci sono sofferenza che temono di essere espresse e che si nascondono dietro un “sto meglio, mi sembra che la situazione si sta sistemando”. E’ (anche) responsabilità del professionista scegliere di andare, anziché stare; riconoscere e rilevare i bisogni e le esigenze dell’altro, contemplando la possibilità di uscire dalle “mura”; allenare lo sguardo a nuove prospettive di setting.
“Setting senza muri” è anche un invito a depotenziare la rappresentazione, l’immagine, dello psicologo che “riceve” nel suo studio e che “sta” in attesa di essere chiamato in favore dell’idea dello psicologo disponibile a raggiungere l’utente. Della serie: se hai paura dell’ascensore, ci vediamo al piano terra, seduti sulla panchina fuori dal Servizio. Se non riesci a stare in una stanza chiusa, ci troviamo all’aperto. Se non hai la macchina e c’è sciopero dei mezzi, ci colleghiamo online o, se valuto che serve ai fini dell’intervento, ti raggiungo.
Ho scelto questa professione per favorire il benessere e la salute dell’individuo e per contribuire a tutelare questo diritto fondamentale dell’essere umano. E per farlo, alle volte, non basta attendere. Alle volte serve raggiungere e co-costruire quello che viene definito “il setting” entro cui si genera l’intervento.





